TIP Teatro
Patres

Patres

Patres

(Ph: Luca Imperiale)

di Saverio Tavano
con Dario Natale e Gianluca Vetromilo
regia Saverio Tavano
foto di scena Gianfranco Ferraro, Angelo Maggio, Pasquale Cimino
video Andrea Aragona
produzione SCENARI VISIBILI
con il supporto della Regione Calabria, sistema delle Residenze Teatrali Calabresi.

Premio Pradella 2018 Teatro dei Filodrammatici Milano
Miglior spettacolo festival Inventaria Teatro dell’Orologio Roma 2014
Premio contro le mafie del MEI 2014 Faenza
Secondo premio al Festival Teatrale di Resistenza Museo Cervi/Gattatico RE.

PATRES PROMO (Link Video)
Link intervista Radio3 http://shar.es/130lbO 

Scheda Patres

Un giovane Telemaco di Calabria attende da anni il ritorno di suo padre, paralizzato dall’attesa, davanti all’orizzonte che può solo immaginare dal buio della sua cecità, attende su una spiaggia bagnata dal Mar Tirreno, mette le mani avanti per vedere l’orizzonte, si rivolge verso il mare e aspetta che questo padre ritorni. È il mare che scandisce e accompagna la vita di questo figlio incapace di vedere come di andare, in attesa di un padre che invece non è in grado di restare/tornare a casa, in una terra a volte ostile. Un “Patres” che lega il figlio ad una corda perché altrimenti potrebbe perdersi, incapace di stargli accanto, non ritrova il coraggio della testimonianza e la forza della trasmissione. Telemaco dalla lunga attesa, non aspetta un Godot,  aspetta realmente qualcuno e l’attesa  è dinamica, come un’erranza, un rischio. Patres parla dei padri e della loro collocazione in questo momento storico: orfani di padri maestri, padri politici, padri spirituali. Goethe dice che l’eredità sta in un movimento di riconquista, vero erede è un orfano a cui nessuno garantirà nulla. E dunque ereditiamo il niente, ma non proveniamo dal niente, occorre quindi recuperare il nostro scarto col passato.

RASSEGNA STAMPA

Estratti stampa:

Dare via al dondolio della sedia, quasi un cullare antico, consolatorio, lasciare al figlio, tra le mani, quel gioco/simbolo, una nave colorata – e allontanarsi quindi piano, infilarsi la giacca, andarsene.

Così quel padre che aveva cercato, mescolando gioia e affanno, fastidio e sensi di colpa, di fondere, con una sorta di allegria rabbia venata di tristezza, di sintetizzare il suo ruolo, raccontando le sue esperienze sul mare, ballando, scherzando, facendo anche un po’ di veloce educazione sessuale con una bambola gonfiabile… una presenza chiassosa, infine malinconica, mentre il figlio – cieco, con una sua speciale consapevole rassegnazione, dolce, ilare, caparbia – riconosce il suo compito. Aspettare. Moto bello sul piano drammaturgico, frammenti esistenziali che sono sempre verità e metafora, sintesi di una vita in atmosfere surreali, “Patres” testo di Saverio Tavano che firma anche la regia insieme a Dario Natale, a sua volta anche protagonista in scena con Gianluca Vetromilo – visto all’aperto, al Museo Cervi, nell’ambito del Festival di resistenza, con la compagnia Scenari Visibili dalla Calabria, lo stesso dialogo attraversato da elementi dialettali, forte l’accento, in una lavoro comunque di coinvolgente immediatezza. Bravi gli interpreti a mantenere questi piani complessi, d’incontro ugualmente assurdo e reale, tra sogno, mito e quotidianità padri che se ne vanno. E che vorrebbero forse anche essere modello, ancora giovani del fare flessioni, spiegando velocemente il mondo che muta, scherzando cameratescamente, incapaci di ascoltare, di stare quietamente, di costruire con pazienza profondi legami affettivi. Tanti applausi al termine e molti “ Bravo!” per Dario Natale e Gianluca Vetromilo.

 Valeria Ottolenghi  Gazzetta di Parma

Uno spettacolo di estrema asciuttezza, misura e liricità. Lontano da stilemi retorici consunti, i due attori costruiscono in modo efficace un quadro di solitudine, di vuoto e mancanza, che da individuale si tramuta in sociale, diventando specchio della crisi di valori e della rottura del patto fra generazioni di una società intera. Una messa in scena attenta e di grande sapienza teatrale, fatta di gesti e parole sempre “necessarie”’.

Festival Teatrale di resistenza- Museo Cervi (RE) – Motivazione secondo premio

In Patres la metafora si fa chiave di volta per mediare denuncia e concetto, codice registico e struttura portante del cuore nevralgico dello spettacolo: un rapporto padre-figlio condizionato dalla disabilità. Una soggettiva colma si humanitas, contraddizioni, attegiamenti dettati da substrati culturali, pretesto per dire di navi affondate, malavita, sud ed emorragie interne. Un’ora di spettacolo dipanata per una partitura scenico-drammaturgica artigianale, incarnata nella plasticità degli attori, dall’effetto di presa aubitanea, epidermica. Un gioco di similitudini e naturalità, veracità e poesia. L’interpretazione fa da piatto forte a un corpus essenziale diretto con precisione lasciando margine di libertà espressiva, non redatto in limiti circostanziali.

Emilio Nigro Hystrio

Lo spettacolo, è emotivamente coinvolgente, notevole anche nell’intreccio dei linguaggi espressivi: la parola dà spazio alla danza, e lo spettatore in età – ma non quello soltanto – riascolta con emozione una delle prime, ruffiane, ma intramontabili canzoni di Celentano, Storia d’amore. L’interesse del lavoro sta anche nel fatto che il tema del rapporto generazionale è affrontato, questa volta, esclusivamente dal punto di vista del figlio. Difatti, tutta l’azione condotta dai bravi Dario Natale (responsabile anche della regia, assieme a Saverio Tavano, autore della drammaturgia) e Gianluca Vetromilo, si rivelerà una sorta di sogno: l’evocazione di un desiderio, di un bisogno profondo quanto insopprimibile.

 Claudio Facchinelli corriere spettacolo.it

 Due le chiavi di lettura visibili in questo “Patres” tutto calabrese. Un figlio handicappato, menomato, non vedente, un Tiresia del Mito, una sorta di Nemo, pesciolino con deficit, legato ad una corda-catena, come Melampo, un Telemaco che aspetta la venuta o il ritorno dell’amato genitore, e un padre sbrigativo che tende all’abbandono in un mix tra educazione spartana e protezione da campana di vetro.

Padre e figlio, ricerca e allontanamento, vicinanza di sangue e critica anagrafica. Guardando più in profondità il ragazzo ipovedente potrebbe rappresentare il popolo del Sud, la nazione calabrese o l’intera cittadinanza italiana che non vuole vedere quello che da anni gli fanno sotto il naso. Il padre (Dario Natale nel ruolo di ruvido e insinuante) è il classico emancipato furbetto del quartierino, losco individuo borderline, squallido e viscido con foie sordide…Un padre-padrone (la classe politica) che, come da migliore tradizione, fugge con bambola gonfiabile di plastica al seguito a Santo Domingo, “l’isola che non c’è”, eterno Peter Pan.
Il figlio (Gianluca Vetromilo) riesce a connotare con commozione e leggerezza i tratti ingenui di questo segno-pennellata.

Tommaso Chimenti rumor(s)cena

 …Anche in questo caso la metafora chiave di violino della grammatica di palcoscenico, si fa strumento per mediare denuncia e concetto. Un rapporto padre-figlio condizionato dalla disabilità, di intensa presa subitanea, pretesto per dire di navi affondate, malavita, sud ed emorragie interne. E’ una partitura artigianale, sul lavoro di attore e di parola. Grande prova di Vetromilo.

Emilio Nigro il quotidiano della Calabria

La scelta della giuria va a Patres, di cui viene lodata la gestione puntuale e variegata della tensione drammatica interna all’intero spettacolo, il quale unisce alle intense suggestioni registiche un’interpretazione vivida e plastica da parte dei due attori. Pur con le basi fortemente poggiate sull’attualità della terra calabrese, sempre presente grazie all’uso di un dialetto viscerale e terrigno, lo spettacolo innalza lo sguardo sull’universale umano. La relazione tra il figlio cieco e il padre marinaio diventa anche, per allegoria, quella tra l’umanità e il proprio Dio o quella tra lo stanziale e il viaggiatore.

Festival Inventaria 2014 Roma – Motivazione premio miglior Spettacolo

 Un cieco, per avere il senso dell’orizzonte, non può far altro che allargare le braccia e tendere le mani al nulla. Quello che non vede lo deve, infatti, mettere nel vuoto che va oltre le braccia, al di là della punta delle dita.In questo modo il suo infinito è appena oltre lo spazio di un abbraccio e il suo mondo si chiude nell’unica certezza che gli preme sulla pelle.Tutto intorno resta solo il vuoto buio dell’assenza di ogni forma.

Patres, che mette al centro della scena un ragazzo cieco affamato di orizzonte, ha un primo grandissimo pregio nella sua capacità di mettere questa condizione del non vedere a un passo dallo spettatore. Chi guarda lo spettacolo si accorge troppo tardi che il suo vedere è, in realtà, un inciampo nella comprensione giacché non aiuta in alcun modo a sentire. E non perché Patres sia uno di quegli spettacoli che sarebbe meglio vedere con gli occhi chiusi, ma perché quel che vediamo è in realtà, ad ogni passo, un indice puntato proprio verso ciò che non vediamo. Ed è lì la sua vera essenza e la ragione della sua poesia arcana.Scelta efficace visto che al centro del discorso di Patres non c’è tanto un discorso, quanto, piuttosto, un’assenza. Il testo, quasi cantato nel suo dialetto antico come una tragedia greca, racconta di una perdita il cui dolore si rinnova ogni giorno.
Il suo cordone ombelicale, metaforicamente rappresentato da una fune che gli lega la caviglia, non trova origine nello spazio della messa in scena, ma nel tempo nero dell’attesa. Vola verso il buio del graticcio, oltre i panni stesi del ricordo, nel non detto del racconto e nel non esperito delle motivazioni degli attori.
È probabilmente questa la più brillante delle soluzioni di regia.
…Per tutti questi motivi Patres è uno spettacolo sfaccettato ed energico. Ma di un’energia compressa, sofferta, lacerata. Più che un’esplosione, mette in scena un’implosione che si congela in quella presa di fiato che sta prima del grido….È in questa dimensione, infatti, che meglio si apprezza la precisione millimetrica della regia e la grande bravura di tutti e due gli attori. E ci preme qui precisare che Gianluca Vetromilo, splendido Telemaco, è bravo non perché accetti la sfida di quasi un’ora di scena ad occhi chiusi, ma perché capace di far sentire la poca distanza dal ragazzo dell’inizio al bambino del ricordo.                                             

 Alessandro Izzi  teatro Bertolt Brecht-fuori quadro Formia

ll mare come libertà possibile, approdo, partenza.
Ora calmo, ora in tempesta, segna il ritmo della vita della gente che lo abita. Perché chi nasce vicino a questo luogo magico e al contempo effimero, dove si manifesta la linea dell’orizzonte tra acqua e cielo, non può non esserne segnato.
Partire o restare, liberarsi o continuare nel susseguirsi dei giorni uguali dell’attesa. È il mare che scandisce e accompagna la vita di un giovane Telemaco di Calabria, incapace di vedere e condannato a vivere nell’attesa di un padre che scappa da una terra a volte ostile, e non riesce più a tornarci. Ha perso il coraggio e la forza di condurre ed esser d’esempio, propria dei padri: un “Patres” contemporaneo, e un figlio legato ad una corda dal genitore, affinché non si perda a causa di occhi ciechi ma immaginifici.

La scelta di recuperare la lingua dei padri pare un ulteriore tentativo di ristabilire un rapporto con le origini che troppo spesso finisce per affondare nel mare della memoria perduta. Il dialetto lametino, dolce e musicale quello del giovane Telemaco, a volte aspro ed urlato, difficile alla comprensione, quello del Patres, diventa così parola drammaturgica che comunica ben oltre il semplice significato dei termini.

Elisabetta Reale  KRAPP’S LAST POST www.klpteatro.it

 “Patres”, maschio e genitore al tempo stesso, cinquanta minuti per raccontare un personaggio che se ne porta dietro un altro, un giovane uomo con gli occhi chiusi che attende senza una guida, un uomo più grande che gioca alla responsabilità di sostenere il peso delle difficoltà di entrambi.

C’è la normalità della vita nel lavoro diretto da Saverio Tavano insieme a Dario Natale, c’è un dolore che nessuno merita e di cui il mondo è stracolmo, questo ci dice il testo scritto dallo stesso regista di origini messinesi per metà, calabresi per l’altra.

 Nunzia Lo Presti CENTONOVE

 Nell’intimità della sala 14 del protoconvento francescano di Castrovillari si dispiega lo scenario salmastro di un rapporto padre-figlio;  il mare è temibile spettatore di un’attesa, carico di speranze e portatore di nostalgia. La cecità è il nastro su cui questo rapporto si costruisce, simbolo della fiducia portata e dovuta ad una figura di riferimento che tanto ci necessita quanto ci manca in quest’oggi precario. Un Telemaco che parla il dialetto lametino si fa portavoce dell’innocenza della gioventù, carica di speranze e curiosità, ma pronta al dubbio; davanti a lui la figura speculare di un padre disincantato, uomo di mare inerme davanti alla cupa realtà che lo circonda. … Il mare che è patria più che la terra, entità temibile che esige rispetto, è stato reso complice di un delitto, una nave carica di rifiuti tossici affondata di proposito nelle sue acque…le parole paterne diventano gli occhi del figlio non vedente. Finché, incapace di affrontare la realtà, incapace di rivelare la verità sul triste mondo in cui ha fatto nascere suo figlio, il padre scompare, lasciandolo appeso alla speranza di un ritorno. Spettri sonori completano le atmosfere evocate dal testo di Saverio Tavano e dall’intensa interpretazione di Dario Natale e Gianluca Vetromilo. I forti accenti dialettali caricano di concretezza questo dialogo su una genitorialità più sociale che paterna: siamo tutti Telemaco, ciechi e disorientati, consenzienti ci lasciamo legare per la caviglia alle corde dell’omertà e dell’indifferenza, muovendoci solo nel perimetro che ci è consentito; votiamo fiducia innata ad un Patres che non ci sa aiutare, che trama alle nostre spalle e che sparisce quando le cose si complicano.

Sabrina Fasanella  radiophonica.com

 Figure della notte (ovvero ciò che non appare o non esiste), diventano abitanti di un giorno fasullo, illuminato non dal sole ma dai fari. Sono finti, i personaggi; sono finti e non esistono eppure esistono davvero: sudano, sono in grado di afferrare gli oggetti, hanno un respiro, i loro piedi, quando battono, fanno rumore. I personaggi di teatro sembrano appartenere alla vita degli uomini, ma in realtà stazionano all’orlo, al confine, sulla soglia del mondo che abitiamo normalmente: ci osservano, prima di essere osservati; prendono spunto dalle nostre vicende per dire le loro vicende; indossano abiti simili ai nostri, parlano il nostro dialetto, conoscono le nostre storie poiché saranno le storie con cui occuperanno il loro tempo, la loro presenza. Da osservatori i personaggi diventano poi osservati: invitano gli uomini a sostare – per un’ora – sulla soglia, sul confine, sull’orlo che chiamiamo “teatro” per mostrare a noi – che da osservati diventiamo invece osservatori – ciò che abbiamo vissuto senza accorgerci di averlo vissuto davvero.
il merito principale di Patres è quello di raccontarci la nostra vita attraverso una finzione che, pur somigliando tantissimo alla nostra vita, rimane con evidenza una finzione.
(la nave Jolly Rosso, carica di rifiuti tossici, lasciata a galleggiare fino a inondarsi al largo delle coste della Calabria e che ha ammalato le coste e la terra, gli uomini e le donne della Calabria); se ne può apprezzare la capacità di alludere a un discorso più ampio per cui – mettendo in scena un padre e un figlio – si fa discorso sulla generazione dei padri e su quella dei figli, sul disinteresse di chi è venuto prima per chi viene dopo.
In tutto questo Patres mostra la propria dimensione corporea, spingendo i due attori a un’interpretazione che alterna moti esplosivi e riduzione controllata (e faticosissima) dei muscoli; mostrando la  trama della scrittura secca, essenziale, tanto diretta quanto allusiva, che fa pesare ogni parola, ogni frase, ogni dialogo, facendo pesare anche gli attimi di silenzio e di attesa; maPatres mostra anche che il teatro è l’unico luogo (altro-dal-resto-dei-luoghi) in cui, le carezze delle dita nell’aria, fanno apparire un cane invisibile; in cui il rombo fuori-scena degli aerei richiama, anticipa o provoca l’abbandono paterno; in cui – illuminando la platea di fari blu – davanti al palco può esserci il mare e che, questo mare, sono gli spettatori.
“La barca non si guida con gli occhi, la barca si guida con le orecchie” dice il padre, ad un punto; resta la gioia critica di aver assistito a una messinscena in cui la regia ha lavorato con senso della misura e concretezza opportuna; i rari elementi scenografici si sono prestati alla dimensione precisa che ha il teatro quando lavora di segni su fondo buio; gli attori hanno dato vita a una presenza meritevole davvero degli applausi finali.
Al termine – sfumata l’ultima luce, lasciato il figlio a dondolare la sua nave tra le mani, seduto, solo, mentre vola sonoro un aereo – qualche spettatore sembra necessiti di un po’ di tempo per abituarsi di nuovo al reale, mentre altri ridicono frasi che hanno appena udito, portando all’esterno un po’ dell’invenzione del palco. Invece nella mia testa, sulla mia pelle, rimangono fisse queste parole: “Gira e rigira, sempre qua si ritorna”. Ovvero: gira e rigira, sempre in questo posto dobbiamo ritornare; qui dove si osservano i personaggi che, avendoci osservati prima, adesso ci (di)mostrano come stiamo vivendo.
Qui, dove “se tu ti riposi, anche il mare si riposa”.
Qui all’orlo, al confine, alla soglia tra la vita e la recita della vita.
Qui, a teatro: dove guardare significa guardarsi.

GUARDARE, GUARDARSI di Alessandro Toppi (Il Pickwick settembre 2014)

…Con Patres brilla ancora Il rapporto padre –figlio scandagliato con poetica lucidità.

Tiziana Bagnato Onda Calabra.it

…Nel nome dei Patres. un padre irsuto in volto come da navigato pescatore, è quell’Ulisse dapprima premuroso ma poi in fuga da tutto, da sempre, per una smania di ricerca o per una fuga da troppe responsabilità. E così Patres c’invita forse a dare un futuro ad ogni Telemaco,a colmare l’assenza; si rivolge a noi che non sappiamo più essere padri, noi che siamo sì estranei alle arti della scena, ma siamo pur sempre spettatori e pertanto tenuti a chiudere il cerchio, perché “gira e rigira qua si torna” dice Telemaco, davanti al mare che non si riposa mai…”

 Pasquale Allegro l’Ora della Calabria

 “…Lo spettacolo Patres mette a nudo la difficoltà di comunicazione tra padre e figlio, per quasi un’ora Dario Natale e Gianluca Vetromilo hanno sviluppato un argomento di grande attualità attraverso scene commoventi e coinvolgenti che hanno impressionato il pubblico…”

Lina Latelli  Il Quotidiano della Calabria